Non sono un appassionato di musica italiana. Ma rileggendomi il testo di questa canzone di Bennato, ho pensato che quell'isola non c'era allora e, oggi più che mai, continua a latitare...

11 luglio 2013

Slow Blog

Yak

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E' talmente lento che non ci scrivo più da anni.
In verità non ho scritto praticamente più nulla per il semplice piacere di farlo, né qui né altrove, fatta eccezione per qualche telegrafico intervento su un paio di forum (o fora, come vorrebbero i puristi), che raccolgono un manipolo di reduci e nostalgici del fu forum dell'Unità.
Alle volte mi passa qualcosa per la testa che meriterebbe di essere fissato su un foglio, vero o virtuale che sia, ma poi rimango lì a fissare il monitor, e se mi sforzo di buttar giù un paio di righe il risultato è pateticamente banale.
Ma non dispero. Chissà che la mia musa non si decida a dispensarmi nuovamente qualche briciolo di ispirazione e di pensiero nobile.




9 ottobre 2007

Perché non ho partecipato al v-day

Yak

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L'8 settembre (scorso...) non ero in Italia, ma anche se ci fossi stato, dubito che avrei preso parte al V-Day indetto da Beppe Grillo. Questo per vari motivi. Il principale è che non amo i tribuni e i trascinatori urlanti di folle. Dico questo senza disconoscere giustezza ed efficacia di tutta una serie di battaglie portate avanti da Grillo, soprattutto quelle a difesa dei diritti dei consumatori.
Ma il consenso ottenuto a suon di urli, vaffanculo e slogan è assai fragile e superficiale, e di conseguenza poco duraturo. La storia recente fornisce esempi a volontà.

L'azione di Grillo sarebbe stata assai più efficace e meritoria se fosse stata finalizzata a dare visibilità a un pezzo di società civile più che legittimamente incazzata verso una degenerazione della politica spinta a livelli intollerabili. Poteva essere una grande occasione di aggregazione e di coinvolgimento di settori sempre più ampi della società, creando così quella spinta dal basso finalizzata a una profonda riforma della politica, intesa nell'accezione più ampia e nobile.

Epperò, invece di fare un passo indietro, Grillo ha preferito continuare a stare su un palco virtuale, producendosi in una serie di pezzi ai limiti del ridicolo, a cominciare dalle discutibili patenti di legittimità (vedi il "bollino") fino all'ultima, inaccettabile uscita sull'immigrazione. Che - per fortuna - ha creato forti dissensi anche all'interno della compagine che fino al V-Day lo aveva sostenuto.
E' un comico, mi direte, non un politico. Appunto. E allora deve pensarci molto bene prima di addentrarsi (esponendo oltre sé stesso anche chi gli ha dato credito) in un terreno minato come l'immigrazione, con argomentazioni approssimative e demagogiche, che hanno molto a che fare con la pancia, e assai poco con la ragione.

Una serie di errori che ha fatto il gioco del potere partitico che in questo paese è il "sistema" e controlla qualsiasi cosa, a cominciare dall'informazione. Potere che grazie a tali errori ha avuto buon gioco a creare un "caso Grillo", mettendo totalmente in ombra la sacrosanta indignazione di tantissimi cittadini e derubricando un legittimo movimento di protesta al rango di epigono dell'"uomo qualunque" di Giannini. Cioè tutto il contrario di ciò che si sarebbe voluto ottenere. Oltre al danno anche la beffa.

Io, come tanti altri, sono incazzato e deluso da una sinistra che viaggia allegramente verso l'estinzione, e che vede ai propri vertici personaggi più attenti al proprio ruolo e ai noti privilegi piuttosto che alle aspettative del proprio elettorato: dal nascente PD, che con tutta la buona volontà non si riesce a capire che cosa abbia ancora di sinistra, alla cosiddetta sinistra radicale (che voto da diversi anni) che non riesce a darsi un assetto unitario. O peggio non vuole, sempre per i motivi descritti qui sopra.

Si rischia insomma di fare la fine della sinistra francese, che ormai conta meno di niente nel panorama politico di quel paese. Con una differenza fondamentale, però: che in Francia (mutuando l'azzeccata analisi di un mio caro amico) indipendentemente dai governi che si succedono, di destra o di sinistra, vige di fatto il "socialismo reale" grazie al quale nessuno finora si è sognato di mettere in discussione cose come stato sociale, controllo rigoroso dello Stato sull'efficienza di servizi pubblici, sanità e istruzione, e laicità dello Stato. Chi, su tali argomenti, abbia tentato forzature di qualsiasi tipo, ha visto scendere quasi tutto il paese in piazza, come per il famigerato "contratto di primo impiego". Chiusa la parentesi.

Tornando in tema, nonostante l'indignazione, bisogna però tornare ad essere un po' più pragmatici e cominciare, ognuno nel proprio piccolo, a cambiare il sistema dal suo interno. Non si può pensare di distruggere tutto a furor di popolo senza un'alternativa seria e "pronta all'uso". Il fatto che il grosso della protesta venga dalle file della sinistra, dovrebbe far riflettere profondamente sui pericoli che stiamo correndo nel breve periodo.

Io stesso devo fare ammenda, poiché per un periodo - in preda all'incazzatura - ho teorizzato una forma di protesta che consiste nell'annullare la scheda alle prossime elezioni. Non quindi l'astensione, ma una protesta attiva. Che però vedrebbe il suo zoccolo proprio tra quella gente di sinistra delusa e disorientata che ha (anche) aderito al v-day.
Faccio ammenda quindi, poiché un simile disimpegno spalancherebbe le porte a un plebiscito per la destra. E parliamo di una destra profondamente antidemocratica, che non è né quella francese né quella tedesca.
E probabilmente sarebbe, nei fatti, la fine della democrazia in Italia per i prossimi quarant'anni.




29 giugno 2007

La piazza

Yak

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Piazza tranquilla
Forum in latino vuol dire piazza. La piazza, nella sua definizione archetipica, è un luogo dove la gente passeggia, si ritrova, discute.

Nella realtà, c'è piazza e piazza. Ci sono le piazze famose, come piazza del Duomo a Milano o piazza Navona a Roma, dove la gente si ferma solo per ammirarne la bellezza, ma che hanno perso la caratteristica originaria di punto d'incontro.

Esistono le piazze dove la gente si riunisce per ascoltare colui che considera il proprio riferimento. Ma anche, in senso assai più deteriore, piazze dove si raduna gente obbligata ad ascoltare chi si è autoproclamato riferimento unico di tutti.

Esistono le piazze o le piazzette di paesi e cittadine, dove la gente si conosce, si incontra e discute, e che accetta di buon grado il nuovo arrivato o il forestiero di passaggio.

E poi esistono le piazze malfamate, o divenute tali col tempo, dove non ci si riunisce ma ci si raggruppa in branco, si urla, si sporca e si aggredisce chi non si conosce o chi dice qualcosa di difforme dal (pessimo) senso comune. Piazze un tempo belle e caratteristiche divenute letamai, che i vecchi abitanti ormai non frequentano più e si limitano ad osservare solo dalle finestre delle proprie case. Quando non finiscono per andarsene definitivamente in luoghi più civili.

E non c'è piano di riqualificazione che tenga, perché ormai è chiaro che il problema non è la piazza, ma la gente che la frequenta. Così come è chiaro che i pochi che urlano hanno la meglio sui molti che sanno "solo" discutere.




14 maggio 2007

Disfatta laica

Yak

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Sinistra oggi...
Mezz'ora di rinvio all'inizio ufficiale della manifestazione di piazza Navona, per scarsa partecipazione. Questo l'esordio sconfortante di un evento che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto mandare un segnale forte circa l'esistenza di un'Italia diversa da quella delineata da una politica trasversalmente asservita a un benpensantismo di comodo, che ritiene legittimo imporre per legge alla collettività un'etica su scelte che in paesi davvero civili sono pertinenza dell'arbitrio individuale. Naturalmente imporre agli altri, poiché ciò che viene negato ai comuni cittadini è garantito da anni a chi ricopre incarichi politico/istituzionali.

Sono andato alla manifestazione di Piazza Navona, ed eravamo pochi, troppo pochi per reclamare la libertà delle nostre scelte e il riconoscimento di diritti che altrove nessuno si sognerebbe mai di mettere in discussione, a destra come a sinistra.

La fotografia che ancora una volta esce dell'Italia è decisamente inquietante: perché il dato rilevante non è tanto la partecipazione massiccia alla manifestazione di Piazza San Giovanni (il milione di persone effettivamente c'era) dovuta anche a una macchina organizzativa efficiente fin nei dettagli, quanto la partecipazione ridicola alla manifestazione dell'orgoglio laico. Un orgoglio mortificato anche dalla scelta improvvida di voler contrastare nello stesso giorno un evento pianificato accuratamente da mesi, con qualcosa messo frettolosamente assieme in qualche settimana, contando su una passione civile e consapevolezza che in questo paese non esistono più da anni. Non siamo più nel '74. Sarà bene ricordarselo d'ora in avanti. Perché quei partiti che nella laicità avevano uno dei principali fondamenti ideologici e che si sono impegnati attivamente nelle battaglie di allora, ora parlano di equidistanza fra le opposte posizioni, per non ostacolare progetti finalizzati esclusivamente al mantenimento del potere. A questo sottende una società civile (si fa per dire) disimpegnata e individualista che non è assolutamente orientata a considerare i problemi altrui come potenzialmente propri. Il referendum sulla Legge 40 è stata ed è tuttora la testimonianza più eloquente di questo stato di cose.

Come se non bastasse, si intensificano gli attacchi sempre più espliciti a divorzio e aborto. Sull'aborto probabilmente riusciranno a mettere le mani, e non certo per migliorare la legge attuale. Sul divorzio non so: certo il fatto che si cominci a rimetterlo in discussione a livello di dibattito politico, è davvero preoccupante.

Il tutto cosparso con il sale dell'atteggiamento remissivo - per non dire codardo - del governo e di buona parte della classe politica, che non hanno il coraggio di replicare fermamente a ingerenze intollerabili e senza uguali in altri paesi civili. Ingerenze che non ammettono repliche o critiche, pena l'essere accusati di essere potenziali terroristi e consegnati direttamente al pubblico ludibrio.

Questo è solo l'ultimo motivo di delusione verso un governo che molto ha promesso, ma assai poco sta facendo per rimettere l'Italia sui binari di un'evoluzione civile in grado di restituirci una dignità pari a quella di altri paesi europei.




9 maggio 2007

Willy di Montecarlo

Yak

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Vauro: l'ingorgo
Nome che fa pensare al ricco rampollo di una nobiltà da operetta, onnitenente e nullafacente, il personaggio è una delle migliori burle che girano in rete da qualche mese a questa parte.

Ed è anche un discreto flamer, nonostante l'innocuità dei suoi messaggi, fatti tutti di autocelebrazione della propria bellezza, della propria ricchezza, della propria eleganza, e soprattutto della propria irresistibile carica seduttiva. Tutto talmente perfetto e abbondante da non lasciare spazio a equivoci circa il carattere burlesco del personaggio.

Eppure, nonostante l'evidenza di tutto ciò, ogni volta che scrive qualcosa si scatena un putiferio di reazioni, in prevalenza ostili, seguite invariabilmente da polemiche interminabili fra chi - in minoranza - sta allo scherzo, e una moltitudine che sembrerebbe prendere molto sul serio ciò che scrive, producendosi in patetiche e livorose reazioni e in pezzi di notevole seppur involontario umorismo.

Se questo è l'obbiettivo di Willy di Montecarlo, bisogna ammettere che è un successo che si rinnova, ormai da mesi, ad ogni messaggio pubblicato su un discreto numero di forum e di blog.

Oltretutto, il nostro personaggio ha la caratteristica di non rispondere praticamente mai, né ai pochi commenti ironici di chi consapevolmente gli tiene gioco, né alle ondate di insulti, invettive e commenti sdegnati che provengono dai più.

E' stato definito in tutti i modi possibili dai suoi denigratori, troll, fascista, provocatore, robot. A parte la desolante testimonianza di scarsità di senso dell'umorismo, ciò che ai più sfugge, è che si tratta di una presa in giro che si perpetua con la logica di una trasmissione radiofonica, originata da un punto conosciuto e ricevuta da un'anonima moltitudine che si trova in ascolto, ma che sfortunatamente ha la possibilità - a differenza di chi ascolta una radio - di interagire con il mezzo, fornendo così in tempo quasi reale dati di share quanto mai affidabili, che sarebbero il sogno di qualsiasi operatore broadcast. Dati che - grazie all'abbondante partecipazione - testimoniano l'indubbio successo della "trasmissione" e sono un sicuro incoraggiamento a continuare.

Non mi meraviglierei se in calce ai messaggi di Willy cominciassero ad apparire banner pubblicitari.




12 febbraio 2007

Partito democratico

Yak

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Qualche anno fa circolava una battuta - solo apparentemente - impietosa sui DS che recitava all'incirca in questo modo: «Se continua così, dopo la "P", i DS perderanno anche la "S"»

Era una battuta nata in modo un po' scaramantico, per esorcizzare il timore che potesse realizzarsi ciò che invece pare sempre più prendere forma.
La "P" ritornerà e la "S" se ne andrà in soffitta dopo decenni di onorato servizio, con buona pace di quanti speravano in un dopo-berlusconi all'insegna di una rinnovata politica di sinistra, in tema di pace, diritti civili, impegno sociale e laicità, e della promessa volontà di porre rimedio ai guasti creati dal precedente governo.

I risultati, a oggi, non sono confortanti. Come non sono confortanti gli auspici sotto i quali sembra prendere forma il "partito democratico", nuova formazione di centro che si lascerà dietro gli ultimi scomodi pezzi di una tradizione che per decenni è stata riferimento per diversi milioni di persone, ma di cui ora pare ci si debba vergognare.

"In Europa, né con il Pse né con il Ppe" recita il neonato manifesto del PD, e così non dovremo stupirci se, forse, nell'organigramma del nuovo partito, oltre agli inossidabili D'Alema, Rutelli, Amato, Fassino, vedremo spuntare anche Casini e Ferrara, con la benedizione dell'On. Paola Binetti.

Comunque il nuovo partito nasce per amore dell'Italia. Possiamo stare tranquilli...




12 gennaio 2007

L'ingorgo

Yak

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Vauro: l'ingorgo
Stamattina ascoltavo una trasmissione alla radio sul tema del traffico, dell'uso dell'auto, considerazioni, proposte, etc.
E così mi è tornato alla mente un episodio di qualche tempo fa.
Una mattina, avevo un'importante riunione in ufficio ed ero in ritardo, nel senso che stavo per uscire da casa e mancavano solo 20 minuti all'appuntamento. Chi conosce Roma, sa che per andare da Monteverde ai Parioli in macchina la mattina di un qualsiasi giorno feriale, un tempo così ridotto è insufficiente. E così ho chiamato un taxi, contando sul fatto che passare per il centro mi avrebbe fatto risparmiare tempo prezioso.

Arrivati in Piazza Venezia, rimaniamo imbottigliati in un ingorgo come quello che ha ispirato l'omonimo film di Comencini. Il tassista, sconsolato, mi spiega che nell'ultimo anno è aumentato in misura esponenziale il numero di permessi concessi per l'attraversamento della ZTL, che - a pagamento - viene concesso a chi dimostri di possedere determinati requisiti. Se sei un medico (giusto), se sei dipendente di un'ambasciata (e vabbè), se sei un agente di commercio (e se no come si fa), se hai un abbonamento a un garage o parcheggio, se sei giornalista, etc... Ma anche se puoi dimostrare, ovviamente con molto più riserbo, di conoscere qualcuno che può. Vuolsi così colà dove si puote, e così un numero imprecisato, ma cospicuo di non aventi effettivo diritto, espongono in bella vista, a mo' di simbolo fallico, il vistoso contrassegno con la "X" che consente di passare - senza danni al portafoglio - per i famigerati varchi elettronici. Questi "furbi", peraltro, sono gli stessi che bollano come incivili quei pendolari inferociti che occupano i binari, non potendone più di inefficienze, sporcizia e condizioni di sovraffollamento oltre il tollerabile.

In altre città europee esistono isole pedonali, in cui l'accesso è consentito esclusivamente ai mezzi di soccorso, parcheggi sotterranei (a gestione pubblica e a prezzi accessibili) che consentono di lasciare la macchina in prossimità della destinazione, tram e metropolitane che rappresentano un'alternativa veloce e confortevole. E soprattutto uguali diritti e doveri per tutti. Qui da noi, invece, vorremmo ottenere i risultati degli altri con i nostri metodi. Che sono vietare a prescindere, arrangiarsi con ciò che si ha (praticamente nulla, se pensiamo ai trasporti pubblici romani), e scoraggiare l'uso del mezzo privato con targhe alterne, balzelli di tutti i tipi e altre amenità del genere. Fatte ovviamente salve le varie rendite di posizione che caratterizzano la società italiana, e che ti fanno sentire uno stupido perché ti ostini a voler rispettare regole che dovrebbero valere per tutti.

Alla fine ho speso 25 euro di taxi, e sono arrivato in ritardo...




26 maggio 2005

Storie napoletane

Yak

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Napoli - Piazza Bellini
Io di solito non vado a Napoli: "torno" a Napoli. Fatto curioso per chi, come me - napoletano solo di origine - non vi ha mai vissuto con continuità, pur conoscendola fin all'ultimo sassolino in virtù di una casa a Ischia e di soggiorni più o meno lunghi per svariati motivi.

E come ogni napoletano che si rispetti, parlo il dialetto, conosco la cultura partenopea e cucino in ossequio alla tradizione. Ma soprattutto – in quanto napoletano “all’estero” - arrivano momenti nei quali mi assale un impulso irrefrenabile di reimmergermi in quell'atmosfera.

E così, complice la stanchezza e la voglia di concedermi un po' di relax, un giovedì di marzo decido di andare a trascorrere tre giorni a Ischia, in quello che considero il mio eremo dell'anima, in quel periodo di transizione fra inverno e primavera in cui i colori sono più intensi, il mare e il cielo sono separati dall'orizzonte e la sera da casa mia si vedono le luci della funivia del Vesuvio. Uno dei momenti più belli.

Arrivo alla stazione Centrale intorno alle sette di sera, e per prima cosa compro "Il Mattino", per vedere gli orari dei collegamenti marittimi con le isole. Mia moglie una volta mi ha domandato perché non "Repubblica", visto che anche nell'edizione napoletana sono riportati quotidianamente gli orari. Beh, ma perché è tradizione: da oltre quarant'anni compriamo "Il Mattino" per gli orari, il giorno che arriviamo e il giorno che ripartiamo.

C'è un traghetto che parte da lì a venti minuti. Se mi sbrigo ce la faccio, e così vado verso il parcheggio dei taxi.
E qui apro una piccola parentesi: a Roma Termini si formano file mostruose, smaltite - si fa per dire - da pochissimi taxi che arrivano ogni tanto, dispensati con la parsimonia di un dono divino; la scarsità di licenze è uno dei tanti drammi romani.
A Milano si formano file ordinate, che si esauriscono con un flusso regolare di vetture che si incolonnano disciplinatamente.
A Napoli ci sono solitamente un centinaio di macchine, disposte come un ammasso informe di lamiere bianche, con gli autisti più attenti a non farsi fregare la corsa dai colleghi che alla gente che arriva. Che nonostante l'ampia disponibilità riesce ad essere indisciplinatissima creando una situazione di intralcio permanente.
Alla fine riesco a conquistare una macchina, un autentico pezzo da museo: una fiat 125, domata da un vecchio tassista con una faccia segaligna ma simpatica.

"Dove vi porto signo'?"
"Al Molo Beverello... Ce la facciamo in venti minuti?"
"E mo' verimm'... A che ora c'avete il mezzo?"
Evito una fin troppo facile ironia, e pazientemente gli dico l'orario di partenza.
"Ma il biglietto lo tenete?" mi chiede, come se dovessi imbarcarmi sul Queen Elizabeth.
"No, lo faccio a bordo"

E così, con insospettata grinta (del tassista, ma anche della macchina) ci lanciamo nel traffico di piazza Garibaldi. Dopo aver rischiato un frontale con un autobus e di travolgere due pedoni e un motociclista, imbocchiamo la corsia dei mezzi pubblici del Rettifilo (Corso Umberto il vero nome, un viale dritto che collega la stazione Centrale a piazza Municipio, il porto). E lì ci ritroviamo di fronte a una massa informe di lucine di posizione che invadono qualsiasi cosa. Fermi.

"E questa è la solita storia, dotto'... A Napoli le corsie sono preferenziali perché le preferiscono tutti quanti." mi dice sconsolato il tassista. Mi trattengo a stento dal ridere, perché non voglio che si rilassi e mi faccia perdere il traghetto. Ma di fronte all'ineluttabilità di quel casino biblico, lui si rilassa lo stesso, e per passare il tempo attacca con le domande.

"Ma vuie nun site napulitano...", esordisce. Io non ho fattezze propriamente scandinave, ma evidentemente il fatto di non abitare a Napoli incide sulla fronte di chiunque un marchio indelebile, visibile soprattutto a tassisti e commercianti.

"I miei genitori lo sono. Io sono nato a Roma, e quand'ero piccolo ci siamo trasferiti a Milano. I miei fratelli sono nati lì... E adesso abito nuovamente a Roma, dove mi sono anche sposato"
"Ah... e come mai non siete rimasto a Napoli?". Avrei voluto dirgli che ci siamo trasferiti nel '59, quando avevo tre anni, e che a quell'età è un po' difficile decidere in autonomia. Ma ha una faccia simpatica, e così, pazientemente, gli spiego che mio padre è avvocato, e grazie a un suo caro amico ha cominciato ad avere sempre più clienti a Milano, etc. etc. A un certo punto mi interrompe e mi fa una domanda, anzi, "la domanda" per eccellenza:

"Ma voi a che squadra tenete?"
"A nessuna. Il calcio non mi interessa."
"Manco a vostro padre? E ai vostri fratelli?"
"Mio padre è del Napoli" dico, evitando pietosamente ogni commento sulla situazione attuale dell'A.C. Napoli, "i miei fratelli sono invece milanisti sfegatati"
"Ah... E non si vergognano? O' milàn è pure 'e chillu fetente 'e Perluscone..."
"Non credo. Ma se volete glielo domando, e la prossima volta che vengo a Napoli ve lo dico..."

Siamo quasi a Piazza della Borsa, e ormai mancano cinque minuti alla partenza. E i cinquecento metri che ci separano dal porto sono completamente intasati. Alla fine sbuchiamo in Piazza Municipio. Giriamo su due ruote attorno alle aiuole spartitraffico, ed entriamo come una fucilata nel Molo Beverello: niente da fare. Il traghetto si sta dirigendo di gran carriera verso l'imboccatura.

"Dotto' mi dispiace..." mi dice mortificato il simpatico vecchietto, come se sentisse sulle proprie spalle tutta la responsabilità del casino cronico del traffico napoletano.
"E voi che colpa ne avete... Non vi preoccupate"

Guardo il tassametro: 6 euro e 80, una miseria.

"Vabbè, portatemi a Mergellina, fra un'ora c'è l'ultimo aliscafo. Prenderò quello."
"E come no, dotto'! immediatamente!" mi risponde rinfrancato e tutto contento di prolungare la corsa.

Mentre rientriamo sulla piazza, mi viene in mente che mia moglie mi ha intimato di portarle una scatola di cioccolato di Gay Odin, un'antica e famosa cioccolateria napoletana, pena il lasciarmi fuori casa...

"Sentite, ce la facciamo a passare a via Toledo da Gay Odin?"
"E certo che ce la facciamo!"
E così siamo nuovamente nel traffico. Nel giro di dieci minuti siamo in Piazza Carità. Lo faccio aspettare lì, poiché via Toledo è quasi interamente isola pedonale. Altri dieci minuti per andare al negozio, scegliere una bella confezione di cioccolatini assortiti, e tornare al taxi.
Ripartiamo, e arriviamo in pochi minuti in Piazza Vittoria. Dove è tutto bloccato.

"Dotto' non vi preoccupate. Manca mezz'ora e siamo quasi arrivati."
Dopo un quarto d'ora abbiamo fatto cinquanta metri, e io invece comincio a preoccuparmi, nonostante l'ottimismo del tassista. Finalmente, all'altezza di San Pasquale la strada si libera. Gli ultimi cinquecento metri li facciamo rischiando l'arresto, e finalmente ci fermiamo in via Caracciolo, davanti all’imbarco degli aliscafi per Ischia. Sono le 20 e 18, tre minuti dopo l'orario di partenza. E' ormai annottato, e attraverso la struttura e i tendoni del pontile non riesco a vedere se l'aliscafo è ancora attraccato. Metto 25 euro in mano allo stupefatto vecchietto, e mi precipito verso l'imbarco.

L'aliscafo ha già la prua verso il mare aperto e si sta avvicinando all'imboccatura. Mentre penso se telefonare a qualche parente o andare in albergo per passare la notte, ecco accadere una cosa impensabile in qualsiasi altro angolo del pianeta, un vero miracolo napoletano. L'aliscafo rallenta, si ferma, fa una leggera retromarcia, ruota su sé stesso, e lentamente si riavvicina al pontile. Dal nulla appaiono due ormeggiatori che con pochi movimenti riattaccano la passerella e mi spingono letteralmente sull'aliscafo. Dieci secondi e stiamo ripartendo. Ce l'ho fatta.

Vado sul ponte di comando per fare il biglietto, e soprattutto per ringraziare il comandante.
Un uomo di mezza età, dal viso abbronzato da anni passati in mare, e dall'espressione simpatica e aperta.

"Comandante, non so davvero come ringraziarla..."
"Ma si immagini, poi in questa stagione queste cose si possono fare..."
Mentre gli porgo i soldi del biglietto, mi guarda, e con un sorriso mi dice: "Ma voi non siete napoletano..."




8 marzo 2005

Emozioni...

Yak

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Vermeer - Strada di Delft
Il '68 non l'ho "fatto", poiché a quell'epoca avevo solo 12 anni. Troppo giovane per capire e partecipare. Ma gli anni '70, da un certo punto in avanti, posso dire di essermeli decisamente goduti. Questo per almeno due motivi. Il primo, oggettivo, è che a quell'epoca abitavo a Milano, città allora ricca di passione civile e di grandi fermenti culturali. Il secondo, squisitamente soggettivo, è che a un dato momento sono riuscito a sganciarmi da una certa logica che richiedeva di essere alternativi a tutti i costi. Talmente alternativi che si finiva per diventare autentici campioni di conformismo.

Era il periodo del teatro alternativo, fatto da compagnie alternative, che mettevano in scena testi alternativi, in locali alternativi esiliati in una squallida periferia che di alternativo aveva ben poco. E la musica alternativa, l'arte alternativa, il cibo alternativo. E se non eri abbastanza alternativo, rischiavi di essere considerato un paria.
Una fatica improba ricompensata sovente con una noia infinita.

E così, un bel giorno, decisi che ne avevo abbastanza, e tornai alle mie passioni di sempre: la musica jazz, il cinema francese, la buona cucina, le mostre di fotografia, l'arte goduta sulla base di personalissime emozioni.

L'arte. Non ero e non sono un esperto. Sicuramente lo sono molto meno che in fatto di musica jazz.
Però a un certo punto ho scoperto che pur senza conoscenze e studi specifici, potevo trarre dalla contemplazione di un quadro, sensazioni straordinariamente intense e durature. E così ho imparato a godere dei sogni di Magritte, dei colori parlanti di Kandinsky, e ancora Boccioni, l'incredibile senso di pace di Monet, le storie malinconiche di Hopper, e le seicentesche "fotografie" di Vermeer, il mio preferito, fonte di indescrivibili emozioni... Tutto senza parole, senza mediazioni di alcun genere, altrimenti tanto varrebbe contemplare un foglio di carta bianca. E' una strada che ho imboccato con convinzione profonda.

E così mi è venuta la curiosità di pormi di fronte alle vicende della vita allo stesso modo in cui osservo un quadro o ascolto un brano di jazz. Senza parole, aspettando le emozioni. Qualche volta mi riesce, il più delle volte ancora no. Ma è certo che quando accade, la percezione e la chiarezza sono assolute. Non è poco. Ed è realmente alternativo, in un'epoca dominata dalle chiacchiere.




8 novembre 2004

Sconforto

Yak

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Mettiamoci il cuore in pace. Hanno deciso che gli OGM dovranno sostituire le colture tradizionali, e così sarà. Hanno coinvolto scienziati autorevoli, che pacatamente confutano i mal di pancia di chi, pur non avendo preparazione e argomenti validi da contrapporre, si affida al legittimo sospetto che aziende come la Monsanto diano ben poche garanzie in termini di etica.

Ma la Monsanto è americana, la Monsanto cogestisce potere insieme ad altre multinazionali che non hanno esitato a scatenare sanguinosi colpi di stato in nome dei propri interessi. E siccome in Italia chi dovrebbe rappresentarci è prono al volere dei "poteri alti" d'oltreoceano, la vantata biodiversità italiana finirà per essere un ricordo.

Hanno deciso che in medio oriente si devono esportare "pace e democrazia", e così si continuerà a mettere a ferro e fuoco centinaia di migliaia di chilometri quadrati, facendo finta di non sapere che se pace e democrazia in quei territori mancano, è anche colpa nostra.

Quegli stessi che starnazzano a difesa dei diritti degli embrioni, sostengono con nauseante ipocrisia la liceità di una guerra criminale e assurda, liquidando come "danni collaterali" decine di migliaia di vittime innocenti (anche loro erano embrioni, o no?)

Facciamo parte di una - sedicente - sinistra, che invece di portare avanti con coerenza i propri valori, si muove in funzione degli orientamenti del centro, e spera sempre di recuperare il voto di qualche pentito di destra.

E così ci tocca assistere al remake di balletti dorotei per trovare le "convergenze programmatiche" su argomenti che non dovrebbero essere mediabili. Ma visto che riformismo deve essere, riformismo sarà. E quindi è stato deciso che i vertici devono essere gli stessi del 2001, protagonisti dei noti e brillanti successi. E chi ha tentato di mettersi di traverso è stato esiliato senza mezzi termini. Giorni orsono mia cognata si (e mi) domandava come mai la sezione DS di Ponte Milvio a Roma, storica, è sempre deserta... Già, chissà come mai...

Molti, anzi moltissimi, pensano che privatizzare i servizi pubblici sia un errore, poiché il privato persegue - legittimamente - il fine del profitto. Ma un po' meno legittimamente il profitto lo persegue con tagli indiscriminati dei costi, che quando va bene provocano disservizi all'utenza, quando va male diventano causa di incidenti come quello ferroviario di ieri in Inghilterra. Eppure i liberisti rampanti (di destra e di sinistra) continuano a sostenere che le privatizzazioni rappresentano il futuro: se il trend è questo, poveri noi... Neanche Orwell riuscirebbe ad immaginare la gravità dei possibili scenari futuri.

Insomma, noi protestiamo, ci mobilitiamo, ci riuniamo, leggiamo, discutiamo, teniamo alta la nostra passione civile: ma basta scorrere i giornali, mattina dopo mattina, per rendersi conto che il mondo continua ad andare nella direzione opposta ai nostri desideri... Come risultato non è granché.

Finiremo come tanti Don Chisciotte, che prima o poi saranno brutalmente costretti a rinsavire: "Congratulatevi meco, miei buoni amici, che io ho cessato di essere don Chisciotte della Mancia, e sono quell'Alonso Chisciano che per i miei esemplari costumi ero chiamato il buono."

Mettiamoci il cuore in pace, via...




18 ottobre 2004

Istinto di sopravvivenza

Yak

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Immigrati a Porta Orientale intorno al 1910.
L'odierna puntata della trasmissione "Radio Tre Mondo", affrontava il tema dell'immigrazione, oramai in vetta alla classifica dei problemi italiani e degli incubi del nostro superficiale immaginario collettivo.

E lo affrontava, come di consueto, discettando su regole, questioni umanitarie, leggi passate, presenti e future. Con la pretesa, insomma, di risolvere i problemi regolamentandone gli effetti, ma ignorandone totalmente le cause.

E' ancora vivo il ricordo della vicenda della Cap Anamur, la nave carica di disperati provenienti dalla martoriata regione del Darfur.

Se non stessimo parlando di una tragedia, ci sarebbe da ridere. L'Italia ha espulso quel manipolo di disperati che cercavano di sfuggire all'inferno del Sudan.
Lo ha fatto invocando il rispetto di norme approvate recentemente con il patrocinio di chi sostiene una dubbia salvaguardia dell'identità "italiana". Già questa sembra una barzelletta, vista l'Italia attuale, fatta di campanilismi atavici, e adesso declinati addirittura in forma di spinte secessioniste.

Ma non è questo il punto. Il punto è che ci troviamo di fronte a un fenomeno epocale, di cui questi episodi rappresentano solo l'inizio: centinaia di milioni di disperati che, spinti da quegli impulsi assolutamente non mediabili quali la fame e l'istinto di sopravvivenza, cercano approdo in quella piccola parte di mondo che però porta enormi responsabilità della loro condizione.

Quel mondo che dei consumi sfrenati ha fatto la propria ragione di vita, dove capita che un adolescente si suicidi perché si vede negato il motorino. Quel mondo che, in ossequio a regole atte a mantenere equilibri utili al mantenimento di questo status quo, prevede che gli eccessi di produzione alimentare - latte, carni, frutta - vengano mandati all'ammasso e distrutti, alla faccia di milioni di bambini del terzo mondo che muoiono per denutrizione.

E quindi avanti così, con riunioni esclusive degli otto potenti della terra sempre più blindate per proteggersi dalla rabbia crescente dei diseredati, che sono venuti al mondo senza averlo chiesto, ma che, visto che ci sono, su questo mondo vorrebbero restare il più a lungo possibile, e in condizioni decenti. E invece si vedono di fatto negato anche questo diritto.

E avanti con pelose conferenze sui problemi del terzo mondo, in cui si discute di tutto tranne che di una seria ipotesi di redistribuzione delle risorse, l'unico metodo per fermare questa spirale perversa che alla lunga potrebbe portare tutti alla distruzione, in un atto assoluto ma estremo di uguaglianza.

Abbiamo la pretesa di esportare i nostri "valori" nei paesi del terzo mondo, e invece esportiamo morte e distruzione. Ed esportiamo nostro malgrado questo folle "way of life" occidentale, che sta diventando modello e aspirazione di paesi come la Cina e l'India, miliardi di potenziali consumatori che, se raggiungeranno un tasso di motorizzazione pari al nostro, il petrolio sarà destinato ad esaurirsi nel giro di pochi anni.

E quando i livelli di spreco dovessero raggiungere quelli occidentali, e nella peggiore delle ipotesi quelli italiani, non basterebbero le risorse di tre pianeti come la terra.

Considerato il trend attuale, stiamo pur certi che presto verranno a rivendicare ciò che ritengono sia loro dovuto, ma non a bordo della Cap Anamur o di qualche altra carretta da disperati. Verranno a rivendicarlo forti dei loro eserciti e arsenali nucleari dei quali, ancora una volta grazie all'occidente, sono ampiamente dotati.

Allora vorrò vedere quale brillante soluzione inventeranno i nostrani e inflessibili difensori dell'ordine costituito, che trovano adepti anche in parte di una sedicente sinistra, attenta più a interessi di corporazione che alla solidarietà umana e all'eguaglianza tra i popoli.




14 ottobre 2004

Ricordo di una prostituta

Yak

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Ho scritto questa storia ispirandomi a un fatto avvenuto realmente, e raccontatomi nei particolari da un amico. Per ovvii motivi di rispetto verso i protagonisti, ho lasciato indefiniti i riferimenti temporali e geografici e aggiunto parti di fantasia, pur senza stravolgere il senso della storia. Purtroppo, nella realtà le cose sono andate anche peggio.

*****

Spiaggia d'inverno
Quando gli ultimi tre anni di incomprensioni e l'ormai irrimediabile allontanamento decretarono la fine della mia relazione con C., giunsi alla conclusione che, forse, la vita di coppia non era fatta per me. Ma non immaginavo che l'epilogo di una storia che pur non avendo più tracce di entusiasmo e di passione avrebbe lasciato un vuoto tanto grande. E così per molti mesi vissi in una specie di limbo, dove convivevano da un lato la sofferenza del lasciarsi alle spalle un pezzo di vita, e dall'altro il senso soave della ritrovata libertà.

Una sera d'inverno, stavo rientrando da una cena a casa di alcuni dei tanti amici che volenterosamente si adoperavano per presentarmi qualche loro amica, nella speranza che riscoccasse anche per me quella scintilla che tutti sognano. Nei fatti, era stata solo una piacevole serata, priva di grandi emozioni.
Era una notte insolitamente mite di un inverno rigido, e l'aria era particolarmente limpida. Invogliava a restare in giro a godersi un'atmosfera inconsueta per la mia città. Decisi così di fare una puntata in centro, e bermi una birra in un locale che rimeneva aperto fino all'alba.

Per fare più presto imboccai una strada dove spesso stazionavano giovani prostitute; era una strada stretta, e così mi ritrovai dietro una piccola coda di auto. Dopo qualche metro me la ritrovai davanti. Fu una folgorazione. Avrà avuto poco più di vent'anni, un viso pulito dai lineamenti perfetti, e un corpo da far girare la testa. Rimasi imbambolato a guardarla. Abbassai il finestrino per chiederle se era disponibile. Mi ricordo che tentai di farfugliare qualcosa, ma non riuscivo mettere assieme una frase sensata. Lei, senza dire niente, girò attorno alla macchina, aprì lo sportello ed entrò. Sorridendo mi indicò la strada per arrivare fino a un albergo nelle vicinanze.

Per me era la prima volta. Non mi ero mai posto il problema se fosse giusto o meno andare con una prostituta. Semplicemente non mi era mai passato per la mente di pagare in cambio di qualche ora di sesso. Durante il breve tragitto fino all'albergo, rimasi muto come un pesce, e ogni tanto la mia mente era attraversata da una domanda: "Ma che cosa sto facendo?"

Dopo alcuni minuti che mi parvero interminabili, arrivammo all'albergo e salimmo in camera. Rimasi in piedi senza riuscire a fare o a dire nulla. Mi sentivo uno stupido, e avrei voluto scappare. Ma temevo che mi sarei sentito ancora più stupido. Lei mi guardava e sorrideva divertita. Ma non c'era traccia di derisione nel suo sguardo. I suoi modi erano rassicuranti, e fu allora che mi sciolsi, e decisi di vivere questa strana avventura fino in fondo.

Il giorno seguente andai in ufficio, accompagnato da una sensazione di stordimento che non avevo mai provato prima. Mi chiusi nel mio studio, ma non riuscii a combinare nulla. Complice anche il risveglio dei sensi. Ma non era solo quello. Quella ragazza aveva scavato in me una traccia decisamente più profonda di quella che solitamente ti lascia una notte di sesso.

Dopo quasi una settimana, pressoché improduttiva dal punto di vista professionale, una sera, senza pensarci troppo, presi la macchina, e mi diressi verso la strada dove la avevo vista per la prima volta. Era nello stesso punto della volta precedente, e c'era la solita carovana di auto dietro a lei. Declinò con gentilezza le profferte degli automobilisti che mi precedevano, e quando mi vide, il suo viso si illuminò, e allo stesso modo della prima volta, entrò in macchina senza dir nulla.

Cominciò a diventare una specie di droga, ormai andavo a cercarla anche quattro volte alla settimana: l'ebbrezza dei sensi, certamente, ma anche una dolcezza nei modi che non avevo mai trovato in altre donne.

Una sera, quando entrò in macchina, mi sorpresi a chiederle se fosse disposta a dedicarmi una notte intera, che nelle mie intenzioni sarebbe iniziata a cena in un posticino sulle colline dei dintorni. Ci pensò qualche istante, e alla fine accettò volentieri, a condizione che l'accompagnassi a casa a cambiarsi. Mi meravigliai del fatto che non si facesse problemi a farmi vedere dove abitava; ma alle volte la fiducia nasce da una comunicazione ben più profonda delle parole.
Arrivammo a casa sua, e dopo un decina di minuti, la vidi uscire dal portone: con un abito verde pallido fino al ginocchio, scarpe basse, senza trucco e con i capelli lunghi e lisci abbandonati sulle spalle. Era bella da mozzare il fiato.

A tavola, si aprì, e mi raccontò di lei. Parlava un ottimo italiano, con una leggera inflessione che tradiva le sue origini. Si chiamava I., aveva ventiquattro anni, e proveniva da un paese agricolo a duecento chilometri da Mosca. Suo padre aveva delle terre e un'attività commerciale. Era anche a capo di un comitato di cittadini che si opponeva alla mafia locale. Un giorno, dopo varie minacce e avvertimenti, sparì e non si ebbero più sue notizie. La madre, finì per cedere alle offerte di chi probabilmente era responsabile della scomparsa del marito, e cedette in blocco terreni e attività.
A quel tempo I. aveva ventidue anni. Un giorno, un suo amico andò a trovarla a casa, e le raccontò che tramite altri amici avrebbe potuto introdurla alla carriera di modella in Italia. I. non era un'ingenua, e capì al volo dove volesse arrivare il suo (falso) amico. Nel frattempo, i pochi soldi realizzati dalla vendita dei beni del padre stavano finendo, e la sua famiglia era sempre più in difficoltà. Così, prese senza pensarci troppo una decisione, e fece una controproposta a quel maiale: "Non sono una stupida, e so che cosa andrò realmente a fare. Accetto a una condizione. Che il passaporto resti nelle mie mani, e che l'unica pretesa dei tuoi amici sia solo la percentuale sui miei guadagni. Non ho intenzione di fare la schiava."
Dopo due mesi era in Italia. All'arrivo incontrò una persona a cui consegnò un biglietto. Il suo "amico" aveva tenuto fede agli impegni. Aveva il passaporto in borsa, divideva un appartamentino dignitoso con un'amica, e nessuno aveva rivendicato privilegi in natura. Le rimanevano abbastanza soldi per sé, e una buona parte la mandava periodicamente alla famiglia. Inoltre aveva un giorno e mezzo di libertà alla settimana. Rispetto ad altre ragazze era stata fortunata.
La mattina successiva la riaccompagnai a casa sua. Ci salutammo in macchina, davanti al portone, con un lunghissimo bacio. Non dimenticherò mai quel momento.

Il sabato successivo decidemmo di andare a trascorrere il fine settimana al mare, nella deliziosa locanda di un mio carissimo amico. Era ancora inverno, e non c'era nessuno. La sala da pranzo era un'ampia veranda che si affacciava sul mare. La sera a cena, con una candela tra noi feci il grande passo: le chiesi se avrebbe voluto dividere la sua vita con me. Sorrise, ma i suoi occhi blu si inumidirono. Mi rispose semplicemente "sì".
Mi disse di pazientare qualche giorno, che sarebbe tornata ancora al suo posto per non destare sospetti. Nel frattempo io avrei organizzato la partenza verso lidi sicuri.

La sera successiva tornai nella solita strada. C'erano parecchie ragazze, le solite code di auto, ma non riuscivo a vedere I. Parcheggiai, apettandomi di vederla apparire da un momento all'altro.
Dopo un'ora, mi recai a casa sua. Suonai il citofono. Mi rispose la sua amica, dicendomi che era uscita alla solita ora.
Ritornai al suo posto, e ritornai ancora a casa sua. L'amica, preoccupata mi disse che non aveva notizie. Passai la notte in strada, senza risultato. Dopo tre giorni che facevo la spola, la sua amica mi pregò di non tornare più. Sarebbe stato troppo pericoloso per lei e per me. Mi rivolsi alla polizia, spiegando tutta la storia nei dettagli. Mi fecero sporgere denuncia, ma mi dissero anche di non farmi troppe illusioni.
Non rividi più I.

*

Sono passati dodici anni da quel giorno. Faccio vita ritirata, ho abbandonato la professione, e l'unico amico che vedo è il padrone della locanda sul mare, dove ogni tanto vado a trascorrere qualche fine settimana d'inverno. E quando mi siedo vicino al mare, ripenso agli occhi blu di I.

*****

Dedico questa storia a tutte le ragazze ridotte in schiavitù da sfruttatori che sono la quintessenza dell'infamia, delinquenti indegni di trovare posto in una società civile.




24 aprile 2004

Viaggio sul 4

Yak

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Tram Sirio al capolinea del 4 a Parco Nord.
Milano, alla fermata del tram numero 4, di fronte all'Ospedale Maggiore. Arriva una specie di eurostar che corre lungo i viali cittadini. Salgo su uno di questi nuovissimi convogli dall'avveniristico nome, Sirio, diretto verso Largo Cairoli per andare a casa dove i miei genitori mi aspettano per il pranzo.

Insieme a me entra una signora anziana che commenta con aria divertita "Ma cusa l'è, el tram de la festa?". Ci sono due posti liberi, e la signora ed io ci sediamo vicini.

Ha voglia di chiacchierare, e io le do corda di buon grado. Pare strano, ma anche a Milano trovi ancora chi ha voglia di metterti a parte di fatti piccoli e grandi della propria vita.

E mentre il tram viaggia, silenzioso e veloce, mi comincia a raccontare che era andata in ospedale a trovare un'amica ricoverata per un piccolo intervento. E che con questa amica nel '44, allora quindicenni, erano salite insieme ai partigiani sulle montagne a ridosso del Lago Maggiore, forse più per amore dell'avventura che per consapevolezza. Certo il fuoco già ardeva nei loro cuori, per "Maggio" e per "Broz", nomi di battaglia di quelli che sarebbero divenuti i loro mariti.

"Sono ancora vivi, signora?", "Certo che sì, arzilli come pochi, e sapesse che due rompiballe. Amici per la pelle, almeno una volta al mese vanno a pescare, e due sere alla settimana a giocare a biliardo a Porta Venezia".

"E lei giovanotto che cosa fa nella vita, oltre ad essere tanto paziente da dare ascolto a una vecchia chiacchierona come me?".

E così io, giovanotto quarantottenne, comincio a raccontarle la storia della mia vita, degli anni della mia infanzia e della mia giovinezza a Milano, delle esperienze a Genova e a Torino, dei natali romani e delle origini napoletane, del percorso di vita allegro e tormentato a un tempo, della mia pazza ma impagabile famiglia, delle passioni, della fede politica ("Ahimé, quelli erano tempi... Rischiavamo la vita sulle montagne, ma perdiana, quanti ideali! mica come adesso, con questi che si stanno vendendo l'Italia per un piatto di lenticchie, cercando di convincerci che è progresso...") e del mio percorso spirituale, di mio figlio di un anno e mezzo, bellissimo ma con un problema che sta mettendo alla prova la determinazione e l'ottimismo della mia compagna e mio...

E questa signora, solare e dagli occhi vivissimi, a un certo punto mi interrompe e mi chiede, passando al tu: "Ma alla fine sei una persona felice?"... Ci penso un istante, anche se non ho dubbi, ma ho la sensazione - non sgradevole, in questo caso - di essere stato sgamato... "Sì, direi di sì... credo che per questo motivo ho finito sempre per ottenere ciò che volevo.".

Mi guarda, continuando a sorridere, e mi dice: "Si vede, ma devi esserne sempre consapevole... non sprecare neanche un istante per i rimpianti. Sii sempre grato alla vita, e vedrai che sarai ampiamente ripagato...".

Guardo fuori dal finestrino e vedo il Castello Sforzesco. Siamo al capolinea. Ma fra poco si riparte...




6 febbraio 2004

Turbamento

Yak

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Roma, mattina, ore 9 e 30 circa, in macchina sul Lungotevere fermo al semaforo vicino all'Ara Pacis. Tra le macchine in attesa del verde si aggira un uomo piuttosto giovane, di età apparente intorno ai 35/40 anni e dall'aria fine.
E' vestito con abiti che mostrano i segni del tempo, ma indossati con dignità. Si avvicina alla mia macchina e mi chiede - con imbarazzo celato a stento - qualche spicciolo, poiché lui e la moglie sono rimasti senza lavoro e hanno un bimbo piccolo.
Gli do una moneta da 2 euro che trovo nel portaoggetti.

Sera, circa le 19 e 30 semaforo vicino al ponte Umberto I. Un uomo di circa 60 anni, anch'egli dall'aspetto dignitosissimo, con il viso segnato da un tempo non molto clemente, mi chiede sommessamente qualche centesimo. Gli dò una banconota da 5 euro, e anche in questo caso l'atto è tutt'altro che liberatorio.

Arrivo a casa e racconto questi due episodi a mia moglie, senza nasconderle un certo turbamento. In una città come Roma è matematico incorrere in più persone che chiedono l'elemosina agli angoli delle strade, ma questi due mi hanno lasciato un segno più profondo.

Il perché l'ho capito in seguito: erano italiani, e si intuiva che erano discretamente istruiti, che provenivano da situazioni che in passato potevano essere considerate stabili, insomma che tra capo e collo si erano ritrovati in mezzo a una strada.

Non che il loro dramma sia peggiore di quello delle migliaia di diseredati che ogni anno arrivano in Italia da ogni angolo della Terra, ma questo è il segno di un paese in decadenza, che aspira ad essere un grande del pianeta, ma che è sempre meno in grado di garantire i diritti fondamentali di cui ciascuno dovrebbe incondizionatamente godere.

Con buona pace di Berlusconi e dell'Italia con i ristoranti pieni...




21 gennaio 2004

La via dell'acqua che scorre

Yak

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Lannaronca
Ho quasi 48 anni, sono italiano, cresciuto nel mio paese in realtà metropolitane (nato a Roma, cresciuto a Milano, parentesi di qualche anno a Genova e a Torino, da circa 7 anni nuovamente a Roma), e di tali realtà ho assorbito più o meno tutto, nel bene e nel male.

Nel bene trovo apprezzabile poter scegliere un film fra un centinaio in programmazione; trovo rassicurante avere un numero indefinito di ristoranti a disposizione per dare libero sfogo al mondo di avidità (nel quale per fortuna non sempre mi trovo); se decido di andare in cerca di un CD di brani rimasterizzati di Art Tatum, so che nel giro di un pomeriggio molto probabilmente gratificherò il mio desiderio, senza dover aspettare la prima occasione di andare "in città", o ricorrere all'acquisto per corrispondenza.

Nel male trovo sempre più difficile misurarmi con il casino, con le code: code al supermercato, code alla posta, code al botteghino del teatro o dell'auditorium, code in auto, code per comprare un maledetto gelato e via discorrendo.

Adesso vi domanderete il perché di questo sfogo, oltretutto banale. Beh, intanto non è uno sfogo, o almeno non lo è più. Mi sto rileggendo, con rinnovata attenzione gli scritti del mai troppo compianto Alan Watts, e quello che in passato era stata pura curiosità accademica si sta trasformando in un'autentica esperienza di vita, a corollario - in verità - di una scelta fatta già diversi anni fa. E siccome invecchiando si diventa più saggi - o meno stupidi, se preferite - ci si rende conto che quei concetti e quei ragionamenti non sono poi così astratti e lontani dalla nostra realtà.
Viene la curiosità di prenderli come dei buoni consigli e di metterli in pratica: e non ci vuole poi molto, poiché – anche se non ci si fa caso – la materia prima abbonda: è la nostra vita quotidiana, in questo senso un'autentica miniera d'oro.

Quindi, come dicevo poc'anzi, non mi sto sfogando: sto scoprendo un mondo nuovo. Ma torniamo ad Alan Watts. Mi sto rileggendo un volumetto dal titolo "Taoismo. La Via oltre la ricerca", e sono arrivato al punto in cui spiega il concetto fondamentale, espresso con due vocaboli cinesi, di "wu wei": wu significa "non", e wei possiede diversi significati: "agire", "sforzarsi", "tendere verso", "forzare". Quest'ultima, secondo Watts è la traduzione più appropriata per rendere correttamente questo concetto. Ritornarci, grazie a una rilettura più attenta dell'Autore, è stato illuminante.

Come dicevo, anni orsono ho fatto una scelta di carattere filosofico/religioso che mi ha consentito di conservare intatta la mia laicità e la mia fede politica. Questa scelta indica nella relazione armonica fra la propria vita e l'ambiente, una chiave fondamentale per il benessere materiale e spirituale di ciascuno, e principalmente la pone come causa fondamentale per la convivenza pacifica e civile fra la gente.

Ma tra la comprensione per così dire "concettuale" di un principio filosofico e la consapevolezza profonda passa una grande differenza. Il "non forzare" è il tassello che mi mancava: e senza quel tassello ho sempre finito per considerarmi in guerra contro le avversità e i problemi, piccoli o grandi che fossero. Ora, non voglio dire che le ostilità siano cessate, ma la voglia di sperimentare mi sta facendo scoprire il gusto della consapevolezza. E non è poco.
Per concludere - augurandomi di non avervi eccessivamente tediato - vi riporto testualmente una deliziosa storia che un antico maestro cinese era solito raccontare ai suoi discepoli, qui ripresa da Watts nel suo libro, che chiarirà il riferimento iniziale al traffico e alle code.

Un saggio camminava lungo la sponda di un fiume, vicino a un'enorme cascata. Improvvisamente vide un vecchietto scivolare nell'acqua, proprio all'inizio delle rapide. Allora pensò: "Quell'uomo dev'essere vecchio e malato, probabilmente sta cercando di farla finita". Ma qualche minuto più tardi, dove le acque tornavano a essere di nuovo calme, il vecchietto saltò fuori dal fiume e cominciò a correre lungo la riva. Il saggio e i suoi discepoli si affrettarono a inseguirlo e dopo averlo raggiunto esclamarono: "Non abbiamo mai visto un'impresa così strabiliante! Come hai fatto a uscirne vivo?" "Sapete," rispose l'anziano personaggio, "non c'è nessun trucco particolare. Sono semplicemente entrato in acqua girando vorticosamente e ne sono uscito nello stesso modo. Sono diventato come l'acqua, in modo da non creare conflitti tra me e l'elemento in cui mi trovavo."




11 novembre 2003

Simulazione di crudeltà

Yak

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Santa Eleonora
Un giorno di circa quindici anni fa, un mio amico mi dette un floppy disk, dicendomi che conteneva un simpatico gioco di simulazione. Il giocatore aveva a disposizione un territorio geografico con alture, specchi e corsi d'acqua, e una serie di oggetti da collocare sul territorio per costruire una città.

Man mano che si piazzavano oggetti sul territorio, la città cresceva e modificava le proprie sembianze, avvicinandosi sempre di più nell'aspetto a una metropoli. Una serie di variabili casuali movimentavano il tutto: terremoti, inondazioni, incendi, mostri, etc. Quel gioco si chiamava SimCity.

La versione regalatami dal mio amico doveva essere una delle prime, se non addirittura la prima. Considerati i confini su cui si attestavano allora grafica e capacità elaborative, l’impatto era davvero notevole.

Dopo un paio d'anni mi capitò fra le mani la versione successiva. Stessa logica di gioco, e notevoli miglioramenti grafici e sonori. Ricordo di aver passato alcune notti insonni intento a costruire la "mia" città.
Poi, come capita di solito anche con i giochi più belli, si finisce per annoiarsi e fortunatamente si ricomincia a dedicarsi alla vita reale.

Fino a un mese fa, quando una sera, a cena da amici, abbiamo lasciato le mogli a chiacchierare nel salone, e noi mariti ci siamo ritirati nello studio del padrone di casa, con l'intento di ascoltare in religioso silenzio un paio di dischi di jazz. Mentre ascoltavamo i virtuosismi di Oscar Peterson in una mirabile esecuzione in trio di "Blues for Big Scotia", quasi introvabile in CD, il nostro amico esordisce con: "Ragazzi, ho comprato un gioco favoloso... Si chiama SimCity4. Volete vederlo?". Essendo noi un'accolita di informatici, navigati ma un po' "cazzari", non ci siamo ovviamente fatti ripetere due volte l'invito.

E così, avviato il gioco, ci siamo trovati di fronte a una città ancora in crescita, ma a uno stadio di sviluppo avanzato. Non potevo credere a ciò che vedevo: strade, auto, autobus, ferrovie, costruzioni di tutti i tipi, dalla villetta al grattacielo, autostrade che tagliavano in due densi boschi, persone che camminavano sui marciapiedi, possibilità di ingrandire fino al livello di un isolato, con una ricchezza di dettagli incredibile.
E in più, rispetto alle versioni precedenti, sono apparsi i "sims", ovverossia personaggi virtuali che danno vita alla città. Funzionano autonomamente, a meno di non volerli controllare direttamente: a quel punto si ha il potere in mano puoi farli sposare, divorziare, arricchire, mandare in miseria.

Dopo un paio di settimane di meditazioni intense, mi sono deciso e ho comprato la mia copia del gioco. Leggendomi le istruzioni ho scoperto che puoi giocare in modalità "Sindaco" - e già lì hai una libertà d'azione che ti rende una sorta di dittatore virtuale - oppure in modalità "dio": quando l'ho scoperto non potevo crederci... Nel manuale si affrettano a dire che "Avrai il potere di Giove nelle mani", giusto per non urtare la suscettibilità di alcuno, ma la sostanza non cambia: puoi scatenare tempeste, distruggere una città con un’esplosione nucleare, rendere la vita un inferno ai poveri e ignari sims, con il gusto di far pagare ad altri - seppur esseri virtuali - ciò che nella vita reale sei costretto a subire, oppure per sfogare gli istinti più bassi e nascosti.
E su tali aspetti il produttore batte con particolare insistenza, probabilmente su consiglio dei suoi esperti di marketing, che non senza ragione, devono ritenerlo il leitmotiv del gioco. Che dire? La cosa mi ha divertito, ma in effetti mi ha anche turbato. Perché sfruttandone alcune caratteristiche, può divenire molto più violento di molti giochi sparatutto in circolazione. Ma di una violenza subdola, che può essere pericolosa, visto il livello di coinvolgimento a cui porta questo straordinario gioco.

Ieri sera, invece di demolire un capannone abbandonato, ho demolito per sbaglio un palazzo residenziale. Sul posto si è formata una piccola folla, e sono arrivati i pompieri e le ambulanze. Mi è venuto male...